giovedì 26 gennaio 2012

Giornata della memoria, intervista ad Orlandino Di Iorio

27 GENNAIO, GIORNATA DELLA MEMORIA.


In questa data nel 1945, le Forze Alleate aprirono i cancelli di Auschwitz. Per non dimenticare e per addentrarci nelle storie nascoste nel nostro paese, vi proponiamo l'intervista ad Orlandino Di Iorio, cittadino di Pietrabbondante che lo scorso anno ha ricevuto la medaglia ad honorem dalla Prefettura di Isernia, unico vivo dei sette molisani insigniti del riconoscimento.

Ricordo ancora, quando ci hanno liberato, quella canzone che faceva..”mamma son tanto felice, perché ritorno da te..”»
Sorride con emozione Orlandino Di Iorio. Ma negli occhi si leggono le ferite del passato. Lo strazio di una guerra, che dice di non ricordare abbastanza, e di cui invece conosce date ed episodi. L’ha vissuta sulla sua pelle, così come ha vissuto la tragica esperienza del campo di concentramento. 
Il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, Orlandino ha ricevuto una medaglia ad onore, dedicata “ai cittadini italiani deportati ed internati nei lager nazisti dal 1943 al 1945”. Unico vivo dei 7 molisani che hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento presso la sala della Prefettura di Isernia. 
La sua storia è crudele, ma è un’importante testimonianza di ciò che non deve accadere. Di ciò che bisogna ricordare e tramandare. «A 21 anni fui chiamato alle armi» – racconta Orlandino, originario di Pietrabbondante, dove vive con la sua famiglia - «dopo 3 mesi di preparazione militare a Rimini, mi mandarono in guerra. Era il 1941. Ho dovuto combattere nella ex-Jugoslavia, contro i partigiani di Tito. Eravamo costretti. Poi ci fu un rastrellamento degli “ustici” da parte delle truppe di Tito. E ci hanno disarmato. C’era una delegazione militare siciliana, e un maggiore ci disse di andare tutti a Fiume. Di qui, dovevamo tornare in Italia.» Fiume era lontano, ben 4 giorni di viaggio. Ma Orlandino e gli altri soldati la raggiunsero, con la speranza di tornare a casa. «A Fiume c’erano almeno 20.000 persone» – continua Orlandino - «che aspettavano, come me, la nave per l’Italia. Ma arrivò una nave tedesca, con le bandiere italiane. Ci hanno imbrogliato. All’inizio non capivamo che ci avrebbero portato in Germania. Poi, arrivati a Venezia, i veneziani ci dicevano: “scappate, venite con noi”. 


Ma non sapevamo, volevamo solo tornare a casa. Ci hanno maltrattato sulla nave, con i moschetti ci spingevano giù. Eravamo circa 28.000 persone di tutte le razze. Da Venezia ci hanno incatenato sulle “tradotte”, quei mezzi che trasportano gli animali. Uno sull’altro, senza mangiare per 15 giorni. E ci hanno portato in Germania, nei campi di concentramento Orlandino è stato internato nel campo di Essen (una succursale di Buchenwald), nella parte Ovest della Germania,  e costretto a lavorare in una miniera di carbone profonda 2.200 metri. Essen era ed è un importante centro industriale. Legato all’industria siderurgica della famiglia Krupp e alla costruzione delle armi. In una località di confine, Bottrop, i tedeschi smistarono le truppe. Tra i prigionieri, alcuni scelsero di andare a combattere con loro a Cassino. Altri, come Orlandino, decisero di restare nelle baracche minate in cui erano stati imprigionati e continuare i lavori forzati. «A Cassino c’erano i nostri» – spiega con un briciolo di concitazione l’ex militare – «Come potevamo combattere contro noi stessi? E così siamo rimasti lì. Ci hanno torturato con i manganelli e a colpi di fucile dietro le spalle. Dopo 2 anni, la grande industria tedesca (una fabbrica che produceva carburante diesel per uso militare) fu bombardata. Per questo, ci portarono in campagna, a lavorare la terra, a raccogliere le barbabietole.

Poi arrivò l’8 settembre del 1943. L’armistizio. Nello stesso anno ci fu lo sbarco degli Americani in Sicilia. Ci raggiunsero e bombardarono la miniera, ma a noi non ci toccarono. Gli ufficiali italiani ci liberarono. Furono 5 giorni di caos assoluto. Mi ricordo ancora quella canzone che faceva..”mamma son tanto felice, perché ritorno da te..”» 
Nello sguardo di Orlandino scorrono le immagini e le sensazioni della libertà. Ha gli occhi lucidi, sembra rivivere quei momenti in cui si è sentito vivo, senza costrizioni. Ma poi ricomincia a raccontare: «Dopo quei giorni di follia, ci hanno trattenuto ancora lì. Non ci hanno lasciato andare subito. Abbiamo lavorato per almeno altri 2 mesi come contadini. Infine, ci hanno permesso di prendere il treno per tornare in Italia. Ho raggiunto Pietrabbondante, la mia casa, a novembre del 1947. Dopo 6 anni di guerra e di prigionia.» Adesso Orlandino sorride, posa per una foto con la sua medaglia ad onore. Poi conclude, con un pizzico di amarezza: «Adesso si ricordano di noi. Ma qualcuno avrebbe potuto aiutarci prima.»
A.Z.

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